Il ritorno delle “pastiglie”

Il ritorno delle “pastiglie”

Durante il “look down” avevamo iniziato la pubblicazione delle famose “pastiglie” di Graziella Culasso nostra socia e amica. Brevi racconti che narrano l’Italia rurale dal 900 al boom. Racconti semplici ma che riportano a galla tanti ricordi.
Ricordi di vita vissuta, anche un pò sbiaditi dal tempo, ma che leggendo, man mano riaffiorano più vivi che mai.
Graziella ci ha mandato altri racconti e noi volentieri riprendiamo la pubblicazione.
Il primo è “Il buio e le mele”.
Cominciamo la lettura…è un attimo; profumi, odori, sensazioni ci avvolgono e ci rapiscono, portandoci lontano nel tempo.
BUONA LETTURA!

Il buio e le mele

Sto sognando la giostra dei cavalli di piazza Savona, i cavalli in legno, con le code e le criniere dorate girano la loro danza infinita alzandosi e abbassandosi come le onde del mare, sono tutti bianchi tranne il mio che è rosso come i capelli dell’irlandese, quello che in inverno passa ad impagliare le sedie e racconta di una terra lontana dove i pascoli si tuffano direttamente nel mare gelido del Nord. Anche se dicono che in Irlanda lui non c’è mai stato, se non con la fantasia. La giostra gira sempre più veloce e un trambusto si unisce alla musica di fondo, diventando sempre più forte. – Caterina! Caterina! – urlano gli altri bambini che da terra mi guardano invidiosi – Caterina! Svegliati! – La giostra sparisce inghiottita dal buio della stanza, nel riquadro illuminato della porta mia madre che ripete – Caterina svegliati! Devi andare al Bricchetto dai nonni a chiamare lo zio che venga ad aiutarmi. – Fatico a separare il sogno dalla realtà. Penso che è il solito scherzo: sono entrata in un altro sogno e penso di essere sveglia. Ma mia madre continua – Si è slegato il toro nella stalla, ora sta spaccando tutto, ma io da sola non riesco a legarlo. Papà e Filippo sono andati a Savona con il muriné a portare la farina. Devi dire al nonno e allo zio di venire qui di corsa. Lesta metti i sandali e il grembiulino e vai subito! – Ora è chiaro: non è il sogno nel sogno. Mi devo alzare. – Ma che ore sono? Fuori è ancora buio – Mia madre alza gli occhi al cielo e con un gesto mi fa capire di tagliar corto – E’ quasi mezzanotte, e per il buio ti dò la pila di tuo padre, la batteria dovrebbe durare…. Spero. E poi quest’anno vai in terza, non sei più una masnaietta. – Ecco lo sapevo. Io che ho paura di tutto, dai ragni all’uomo nero passando per tutti i frutti più spaventosi della mia immaginazione, ora devo farmi tutta quella strada al buio, da sola, con una torcia che forse si spegnerà primi che io arrivi. Non ce la posso fare. Ma intanto che cerco di costruire una scusa che sia credibile: una febbre improvvisa, un piede che si è rotto nel sonno o una paralisi istantanea, ho già i piedi strizzati nei sandali di tela e la maniglia di ferro della torcia in mano. E’ un attimo che sono nella strada dietro casa, avvolta nel buio, un cono di luce tremante che dalla mano a pochi palmi davanti ai piedi segna il mio cammino. La ghiaia stritola sotto i piedi e il concerto dei grilli è via via più incalzante. Lontano in qualche cascina, un cane intona il verso del lupo, o forse non è un cane. Di sicuro è quel che ci vuole per trasformare la paura in ghiaccio, le gambe diventano leggere e sgambettano veloci. Dalle scarpate salgono fruscii, come di rami che si spezzano, di diversa misura. Il mio cervello passa in rassegna tutte le forme animali che possono averli causati. E mentre la fifa è il mio motore, e i versi della notte sono la mia benzina, ecco che inizia l’ultimo tratto di strada prima della cascina dei nonni. Un pezzo di stradina lunga e diritta, a valle i vigneti che scendono sul fianco della collina, a monte un’alta scarpata di rovi e sterpaglie, che protegge i filari sul bricco. Se prima la paura mi ha messo le ali ai piedi, ora lo stupore mi ferma di colpo. Una scia luminosa di mille piccole luci intermittenti accompagna la strada, quasi illuminandola, fino a perdersi nell’oscurità. Le lucciole mi terranno compagnia in quest’ultimo tratto, la loro danza luminosa mi accompagna fino alla cascina e la paura è solo un ricordo.

Passata la missiva agli uomini di casa, stupiti non poco di vedermi bussare a quell’ora della notte, nonna Genia mi accoglie nel suo letto fatto di lenzuola ruvide e odore di tabacco, l’aria fresca entra dagli scuri aperti e mi riporta nel sonno. Chissà se riuscirò a fare ancora un giro sulla giostra dei cavalli?

Il sole già alto entra a righe splendenti tra le gelosìe. La vecchia bambola, che quando la corichi emette uno strano miagolìo, seduta su una poltroncina imbottita mi fissa con sguardo triste, una treccia crespa e arruffata penzola mezza scollata da una tempia, il vestito di rigide trine, un tempo bianche ora grigie ed ingiallite. Penso ad una vecchia nobildonna, intrappolata in un guscio di maiolica, in attesa dell’arrivo di qualcuno che la liberi da questo sortilegio.

-Caterina se vuoi fare colazione è meglio che ti sbrighi! Poi devo andare a radunare il fieno –  Certo che voglio fare colazione e se i miei calcoli non sono errati proprio questa settimana è passato Prato: un vecchio pullmino blu che quando arriva nei cortili, apre il portello di lato e svela tutte le sue meraviglie. Calze, mutande e pantaloni, ma anche nastri, gomitoli ed aghi, e soprattutto dolci e caramelle, quelli del carosello. La nonna investe i pochi risparmi negli ultimi, per “quando viene Caterina”, poi per lavarsi la coscienza e placare le lamentele del nonno, un paio di mutandoni lunghi come quelli di Gion Uein nel film del lunedì. Spero che ci sia la mia preferita: una torta ricoperta di cioccolato, che quando la tagli, dentro è soffice e profuma di arancio, avvolta una carta trasparente che sembra fatta di pizzo. Si chiama fiesta e il nome la dice tutta sulla sua bontà.

– Prima però vai nel crutin a prendermi una pignatta di cognà – e in men che non si dica la fiesta vola via lasciandomi nello stomaco una nuova aspettativa. Pane e cognà va anche bene… ma ci fossero almeno due torcetti. –

Il crutin è la cambusa dei miei nonni. Si passa di fianco al pozzo e si scende una ripida scala di terra e pietre, con un legno fissato malamente al muro che dovrebbe servire per tenersi. Al fondo della scala un antro di pietra protegge la pesante porta in legno, sbianchito dai secoli e mangiato dalle camole, chiuso da un pezzo di corda agganciato ad un uncino di ferro. Appena si apre, prima esce il fresco, poi subito dopo gli odori dei tesori custoditi. Uno su tutti il profumo delle mele, quelle piccole e rosse. Ora sono finite da un pezzo e quelle nuove aspettano sull’albero che il sole di ottobre arrossisca loro le gote. Ma il fantasma del loro intenso profumo rimane tutto l’anno, quasi a tener loro il posto sul canniccio, tra i tromboni delle zucche e il moscatello che appassisce per la focaccia di Natale. Poi appena abituati gli occhi alla penombra, vedo allineati sui ripiani delle cripte, i vasi e le bottiglie della conserva: rossi soldati pronti per la battaglia. Sui muri appesi in mostra i gioielli della casata: trecce di aglio, mazzi di cipolle, catene di salamini. Una pancetta reale, alta quasi come me, penzola untuosa dal soffitto, e a guisa di guardiano delle scorte, attende minacciosa i rigori dell’inverno. Ceste gonfie di nocciole, ceci e noci sfilano pigre lungo i muri di terra, alternate a damigiane coperte di ragnatele. Custodiscono l’aceto che invecchia sulla madre. Il nonno dice infatti che il vino e l’aceto, anche se figli dello stesso padre, devono dormire in case separate: che il vino diventa facilmente aceto, mentre è difficile che l’aceto si tramuti in vino. Ecco infine le pignatte della cognà, che come grasse comari con la cuffia in testa, sonnecchiano pigre su un vecchio comò che il tempo non ha risparmiato. Questi ormai indegno per la biancheria, finisce qui la sua carriera a custodire nell’asciutto dei cassetti la semenza per il futuro.

Con la testa piena di profumi mi chiudo alle spalle il santuario di sopravvivenza, mentre un raggio di sole mi pizzica il naso. La colazione  mi attende.

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