Seconda “pastiglia”

Seconda “pastiglia”

PER UN PUGNO DI MARENGHI

Quinto di Bergo è il quinto ma non l’ultimo di una povera nidiata sfornata da due miseri sposi in un seccau da castagne nell’alta langa sperduta. Sesto suo fratello non ha fatto in tempo a vedere il mondo fuori dal grembo materno che se n’è andato portandosi dietro la madre. Il padre non ha retto al dolore e dopo pochi mesi lo hanno trovato appeso alla trave maestra del tetto con le cuffie della moglie e del figlioletto appuntate sul petto. Le sue quattro sorelle gli hanno fatto da madre finché alla bell’e meglio hanno trovato qualcuno che le ha strappate da quella miseria. E lui, là dove il nulla si somma col niente e diventa povertà estrema, continuò i suoi anni in piena solitudine. Poca terra, un pezzo d’orto, più sassi che terra, un bosco di castagni e un pascolo a gerbido, che di animali non ce n’erano. Neanche i topi si azzardavano a mettere piede in questa landa disperata e i cinghiali giravano al largo. Poi un giorno Quinto raduna le sue quattro cose in un sacco da castagne, mette l’unico vestito che possiede, le ultime scarpe tolte a suo padre ormai spirato, si chiude l’uscio alle spalle e parte per non sa dove, bastava andar via da quei luoghi.

Non sa né leggere né scrivere e il suo cuore è sicuramente più grande del suo cervello, ma spera che il mondo in qualche maniera una mano gliela porgerà. Inizia così la sua seconda vita da girovago, macina ogni giorno qualche decina di chilometri e gira tutti paesi della langa, scende giù quasi vicino al Tanaro, lo costeggia fino a Ceva e poi risale, passano le stagioni e con loro gli anni, barba e capelli diventano un tutt’uno. Uno strato scuro gli ricopre la poca pelle scoperta. L’acqua non la vede più da un pezzo, né dentro né fuori. Il vestito che ha visto pochi ricambi è una cartina di buchi e rattoppi. E se all’inizio lo cacciavano malamente dai cortili aizzandogli dietro i cani, ora nessuno ha più paura di lui. Col tempo è diventato un fattore naturale, come un solstizio che cade due volte l’anno e la gente quasi non ci fa più caso. Ed è proprio lui che vedo arrancare dal fondo della strada che porta nel cortile in questa fredda mattinata di ottobre. Il freddo anticipato ha già virato al giallo e al rosso tutte le vigne e spogliato i primi pioppi. Lo riconosco dalla mantella di lana nera, dal cappello alla ventitrè e soprattutto da quel grosso fagotto di pelli di coniglio che si porta sulle spalle. Si perché lui di mestiere compra le pelli dei lapin che finiscono in padella e dice che le rivende ad un misterioso grossista, da lì vanno a finire ai polsi di qualche bella madamin. A dirla proprio tutta non è che le compra, la gente gliele regala, magari assieme ad un giaciglio caldo nella stalla in inverno, ad una scodella di minestra, a un pezzo di pane e tuma che lui avvolge meticolosamente in un fazzoletto da naso di colore indefinito. Ma non deve mancare il bicchiere, di vino naturalmente. Uno all’arrivo, per spegnere la fatica e uno alla partenza per dare un po’ di vigore.  Non è di molte parole e a chi gli chiede che nuove porta dal paese attraversato prima, lui risponde che non ha tempo ad ascoltar le ciance della gente che ha da lavorare lui, ha da radunar pelli per soddisfare tutti gli ordini che gli mandano. La gente sorride e guarda quel mucchio informe di trofei che porta legati con un vecchio cordino: pare lo stesso da sempre, il pelo ha ceduto la lucentezza alla polvere e alle tarme, e gli versa un altro bicchiere quasi a non lasciare che anche quel sogno gli scappi via, come tutto il resto della vita.

Nel granaio ancora caldo per la stufa appena spenta, vicino ai sacchi di meliga sgranata, c’è un giaciglio già pronto, che passi in primavera presto o in autunno ormai tardo, non me la sento di lasciarlo andare a passar la notte al bivacco. Lui mi dice sempre che la stalla va che più che bene, ma non è mica una bestia. – Quinto stanotte dormite qui che stasera tira una filura dall’avué che potrebbe anche fare due farosche! Non potete continuare con questo tempo. – Lui sorride dietro la maschera di barba e polvere, se lo aspettava – Gnese, voi e Giuseppe siete tra i pochi a trattarmi come un vero cristiano. Ma io mi ricorderò di voi. Vedrete! Ho un affare per le mani con quel grossista di Genova che se mi va bene, torno qui e vi porto un pugno di marenghi e facciamo festa per tre giorni di fila! – Mi guarda ma anche lui stesso non crede alle sue parole, lui sa che io conosco bene come finiranno quei pochi soldi che riceverà del venduto: mezz’ora all’osteria e qualche caraffa di vinaccio allungato e quel che gli resterà non sarà che un pugno di moschini, attirati dall’aceto maritato col vino.  – Ma certo Quinto, vedrete che prima o poi la fortuna arriverà e … – ma con le ultime parole ancora in bocca, lui si incammina per il granaio a strappare quelle poche ore di famiglia che non ha avuto. Domattina al cantar del gallo, non ci sarà già più. Sarà già in cammino verso il suo tramonto.

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