Sesta “Pastiglia Valda” di Graziella Culasso: Vestivamo alla zigomara

Sesta “Pastiglia Valda” di Graziella Culasso: Vestivamo alla zigomara

La luce fredda dell’alba filtra dalle persiane e intanto un tamburo di latta impazzito martella nel mio cervello, ma è soltanto la vecchia sveglia di ferro che saltella sul marmo del comodino, quasi all’orlo del precipizio, prima di sfracellarsi sulle mattonelle veneziane. Non è perché arrivano da Venezia, la maestra dice che si chiamano così perché imitano i pavimenti di marmo dei palazzi ducali, in realtà sono solo di cemento verniciato. Smesso l’impermeabile del Tenente Sheridan, di tre taglie più grandi, dopo aver rincorso per tutta la notte improbabili assassini in paesaggi surreali, migro di colpo dal sonno alla realtà. Una stiracchiata, gli ultimi bocconi tiepidi delle lenzuola di tela grattosa e poi bisogna saltar giù. Mi aspetta una colazione veloce che mia madre ha lasciato sul tavolo e poi devo incamminarmi per la scuola. Al mattino è bello perché la strada è tutta in discesa, tre chilometri di pigri tornanti tagliati da sentieri disegnati col righello, ripidi e che non ammettono distrazioni.

Stamattina però è speciale, ieri nel pomeriggio son venuti in visita i parenti di Torino e ci hanno portato la “scatola”. Una cugina di mia madre ha una merceria in periferia di Torino, ad ogni cambio di stagione ci porta una scatola di vestiti che non mette più. Non che navighi nell’oro, ma quello che non vende nel negozio a fine stagione lo passa nel suo armadio e a noi arrivano i “tolti per fare spazio”. È magra e piccolina e forse quest’anno posso pescare anch’io qualcosa dalla scatola delle meraviglie.

Il mio di armadio non è un quattro stagioni come quelli che si vedono in certi Carosello. Il mio ha solo due ante, una per le cose verticali e una per quelle piegate: tre ripiani, uno per me, uno per mia sorella, che ha solo tre anni e porta solo cose piegate e uno per i “teniamoli che magari mi stanno ancora”. Le cose appese, i vestiti buoni per la domenica, sono pochi, uno per stagione mettendo assieme primavera e autunno che un po’ si somigliano. Il resto è una miscellanea di capi sopravvissuti a ripetuti ricicli, ripresi o lasciati andare per inseguir le taglie. Le linee degli orli sul fondo dei calzoni scandiscono il passare del tempo in noi ragazzini: il bacino è sempre più o meno lo stesso, ma le gambe si allungano a dismisura.

-Lucia torna dormire che stamattina ti porto in macchina a scuola. Devo andare al Consorzio a prendere la semenza. – urla mio padre dalla cucina. Bene, ho più tempo per la cernita. Tuffo le mani in quel forziere di stoffe e colori: una sottana troppo larga, delle sottovesti a fiori troppo lunghe, un buffo paio di pantaloni con due campane al posto delle gambe. Ma eccola sul fondo che aspetta solo me. Una maglietta nera a righe rosa, un bordo di pizzo scolorito e un fiore di velluto rosa cucito su una spalla. È abbastanza striminzita che la posso mettere, anche se in quelle goffe impronte sul davanti, un tempo occupate dai seni di zia Giuliana, non ho ancora nulla da metterci. Penzoleranno un po’, ma prima o poi le riempirò. E con i pantaloni a campana, anche se sembro un campanile quasi tutto sciolto su una scodella girata al contrario, l’abbinamento è garantito.

Scendo le scale come Vanda Osiris a Sanremo, ma lo sguardo infuocato di mia madre incenerisce il palco dell’Ariston sotto i miei piedi e mi ritrovo sugli scalini di pietra della vecchia scala.

-Dai vai a toglierti quella sigomara di dosso. Avrai tempo per metterle quando sarai più grande, e sbrigati che tuo padre vuol partire -. Tanta è la tristezza alla risalita delle scale quanta era la felicità alla discesa. Guardo rassegnata il grembiulino a righe bianche e blu che mi aspetta gettato sulla sedia, lo stesso da lunedì e per fortuna che oggi è venerdì. Ci metto sopra il golfino blu di mia madre, rimpicciolito per i troppi lavaggi ha ora finalmente raggiunto la mia misura. Il grattino della lana infeltrita sulla pelle mi riporta alla realtà. In questa discesa delle scale ora mi sento come quella donna che segue mesta e rassegnata una carrozzina impazzita lungo la scalinata di una piazza, unico ricordo posticcio di un film polacco visto ieri in tivù, un po’ barboso e troppo complicato da capire.

Mia madre mi aspetta in cucina con la cartella di pelle in una mano e la merenda avvolta nella carta da pane nell’altra. Tiro ad indovinare: pane e cugnà, ieri c’era pane e tuma; certo che se ci fosse pane cugnà e tuma sarebbe il massimo, lo scoprirò nell’intervallo.

– Non vorrai mica andare a scuola con quelle robe nei piedi – abbasso lo sguardo e mi accorgo di avere ancora addosso le Superga di panno di mia madre. Cinque numeri in più che sporgono da dietro a mo’ di slitta. Ma sono morbide e calde, dai due buchi sulla punta posso far uscire gli alluci per farli chiacchierare tra di loro. Quando scendo le scale le suole di gomma troppo lunghe schiaffeggiano la pietra accompagnandomi con un battito di mani che diventa un pouffare borbottoso se saltello sul legno della lobbia. La mia è una scelta, non è necessità; adoro queste vecchie cucce per i miei piedi, ma ho il sentore che mia madre approfitterà della mia assenza mattutina per dar loro finalmente una dignitosa sepoltura.

-E prenditi l’ombrello che tra un po’ pioverà! – sento, e alzando gli occhi al cielo grasse nuvole grigie aspettano un tacito cenno per scaricare sulla Terra. Sono ormai tre o quattro inverni che l’ombrellaio non passa più, forse è andato in pensione o forse è morto e nessuno ha preso il suo posto. Gli ombrelli appesi in fila di fianco alla porta della cantina, avvolti da una sottile ragnatela nell’ombra del sottoscala, hanno visto giorni migliori. Pronti a fare il loro dignitoso dovere reclamano una ripassata. Scelgo il meno peggio, anche se nero come gli altri due, vanta solo una stecca esposta mentre le ferite di guerra sono limitate ad un sette e pochi baffi di filo sporgenti.

Quest’anno per Natale vorrei uno di quegli ombrelli con gli spicchi colorati, di plastica trasparente che possa veder le gocce di pioggia spiaccicarsi a due centimetri dal naso. Lo metterò nella lista, ma in seconda fila, prima viene la scatola gigante di pastelli, con tutte le sfumature del mondo. Se anche quest’anno il Natale dovesse essere mingherlino, come quello dello scorso anno, almeno quella è salva. Apro l’ombrello mentre le prime gocce pesanti si stampano nella polvere del cortile. Come quei due attori americani che nel film del lunedì tenendosi per mano ballano sotto la pioggia al ritmo di un tip tap, anch’io canticchio in un inglese inventato e s-ciabatto al ritmo di un cic-ciac. – Aim siiinighindereeein!-

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